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Tutti gli appassionati del Giapponese fanno prima o poi la loro iniziazione al mondo dei kanji, un insieme affascinante di tratti che si intrecciano sulle pagine di manga, libri… e danno al testo un aspetto particolarissimo.

Per quanto sia belli graficamente e utili nel velocizzare la lettura, i kanji sono anche il muro più arduo che il traduttore deve scalare per poter rendere il testo nella lingua di arrivo.

La bellezza dei kanji è soprattutto la loro capacità di poter esprimere tantissimi concetti in uno o più caratteri che se mescolati, come carte da gioco, con altri possono dare vita a termini completamente diversi o addirittura a formare neologismi.

Un esempio può essere il titolo del manga Bakuman, il cui significato è dato dall’unione dei kanji di esplosione爆e manga 漫 e che ha dato origine a questa nuova parola爆漫.

Ai Giapponesi piace molto creare neologismi e giochi di parole e questo mette a dura prova i traduttori.

Un buon traduttore è colui che cerca di rendere il testo originale fluido e adatto alla lingua di arrivo, riuscendo anche a trasmettere quelle sfumature che caratterizzano la lingua, ma non sempre quest’ultima parte è possibile ed è in questi momenti che emerge l’amore – odio per i kanji.

Il traduttore coglie il significato intrinseco della parola, ne assapora l’aspetto, tutti i punti più intimi e profondi, lo fa interiorizza e apprezza, ne rimane estasiato, lo ama, ma al tempo stesso è consapevole che il pubblico di arrivo non può capirlo e deve quindi trovare una soluzione al problema.

È in questa fase che nasce l’odio: odio da intendere tra “ ” perché in realtà i traduttori non possono rinunciare a questo amore masochista che li risucchia in un vortice senza fine, però è un momento di odio.

Odio perché il traduttore è consapevole che deve fare una scelta che andrà a discapito di una parte del testo e che a causa di questa sua selezione, una parte dell’originale si perderà irrimediabilmente.

Vero è che con ogni traduzione ci sarà sempre una perdita, perché tradurre implica riportare il significato e non le parole nella lingua d’arrivo e perché ogni scelta di resa solitamente è a carico del traduttore. In questi casi tuttavia, la perdita è lampante e fa soffrire enormemente il traduttore che si scervella per ore sul da farsi, finché non prenderà una decisione di cui probabilmente non sarà mai pienamente soddisfatto.

Quando il testo presenta dei kanji con un significato intrinseco, la cui lettura in furigana forma tuttavia un nuovo termine nato da un complesso gioco di parole, al traduttore non resta che arrendersi perché la resa di entrambi i significati sarà quasi impossibile e dovrà quindi cercare un compromesso per rendere quanto meno il testo facilmente fruibile al lettore.

La scelta in realtà può essere:

  1. tradurre il testo perdendo il gioco di parole.
  2. una nota a piè di pagina con la spiegazione del testo e lasciare quindi le parole in lingua originale.

Qualunque sia la strada che prenderà il traduttore, ci sarà sempre una perdita, ma quell’intraducibilità del testo renderà il legame traduttore – testo molto più forte.

Vi lascio con un esempio concreto dell’argomento appena trattato all’interno di un manga che ho tradotto io e già pubblicato in Italia Hakkenden vol. 7 edito da RW Goen.

 Traduzione da sinistra a destra dall’alto verso il basso (cerchiato di rosso il passo in questione)

 

A: allora in mio onore, il nome sarà “il grande curryman”!*

 *In kanji= uomo brillante, splendido

In furigana= curryman (la lettura dei kanji è proprio karei che è la pronuncia giapponese della parola curry)

 

Traducendo con “il grande curryman” si uniscono i significati che i kanji e il furigana racchiudono, ma si è perso irrimediabilmente il gioco di parole della lingua di partenza.

 

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Francesca
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